Alitalia Sì o No


Non è edificante ascoltare gli isterici ultimatum - stile Armageddon - di politici e sindacalisti contro chi è intenzionato a votare No al referendum sull’accordo Alitalia. In questa triste querelle manca tutta la parte relativa all’ammissione di colpa, all’ascolto, alla negoziazione, alla comprensione ed alla mitigazione delle istanze. Invece il dibattito precipita verso uno scontro tra tifoserie esacerbate. E non una parola, se non proprio a difesa, almeno di comprensione delle ragioni delle parti più deboli.Per molti versi si è trattato di un voltafaccia: non è sorprendente che il ministro Calenda, il quale dichiarava solo qualche mese fa che le responsabilità della mala gestione non dovevano ricadere sui lavoratori adesso si esprima a favore dell’accordo sostenendo insieme ai suoi colleghi di governo che il referendum ha da passare e dipingendo gli irriducibili del no come viziati ragazzini irresponsabili? Ma di chi sono queste responsabilità? Non risulta che il piano/non piano sia stato cambiato, o perlomeno non ne è giunta notizia al di fuori delle stanze dei bottoni, a parte le dichiarazioni pubbliche del presidente designato Gubitosi che si unisce al coro dei sostenitori del sì ma che lo fa disegnando un futuro fatto di Maldive… Alla fine il dado è tratto: la patata bollente spedita ai lavoratori, che si vedono recapitare una specie di vago accordo di ben due paginette e che sostanzialmente prevede, rispetto alle richieste iniziali, per il personale di terra una lieve diminuzione
del numero degli esuberi, che tuttavia rimangono copiosi, una generica serie di ammortizzatori sociali alla quale attingere, senza che comunque si tenga conto del personale a tempo determinato, allegramente gettato via come un kleenex usato, mentre dal personale navigante si pretendono una serie di tagli normativi accompagnati dall’aumento della produttività che quindi, per forza di cose, produrrà altri esuberi, ed un taglio salariale che incide su voci di indennità e incentivi, che nell’accordo è riportato intorno all’8% (circa) e che, secondo le simulazioni già prodotte, non scende, nella migliore delle ipotesi, al di sotto del 21%.
Quindi non si tratta di un piccolo sacrificio, ma di un sacrificio pesante che comporta tagli di stipendio rilevanti di fronte ad un aumento dei carichi di lavoro. L’epilogo di questa ennesima storiaccia targata Alitalia è un capolavoro di strategia: un paio di paginette quasi in bianco, nelle quali si dà via libera alle richieste dell’azienda, autrice di uno pseudo-piano industriale (questo a detta di una serie di commentatori esperti), che vengo proposte ai lavoratori, sotto il ricatto del fallimento, dopo averli strategicamente divisi. Un metodo davvero meschino, e decisamente poco etico, se ci si pensa. All’urlo di “io speriamo che me la cavo” quelli che non verranno toccati dai provvedimenti, tirando un sospiro si sollievo, voteranno Sì, accollando il conto inclusa la responsabilità dell’eventuale scenario apocalittico del commissariamento agli altri, a quelli che ci rimettono strutturalmente in soldi e normativa e che non risaliranno la china, comunque non prima del 2022 e solo a fronte di un biennio positivo di EBITDA (l’unica cosa scritta in modo dettagliato ed
inequivocabile nell'accordo).
Per i lavoratori è l’accettazione di una cambiale in bianco, lo scambio di sacrifici pesanti e certi contro… un bel boh?, anzi l’ennesimo boh. Perché di accordi nei quali i lavoratori pagavano con sacrifici rilevanti le mirabolanti promesse mai mantenute (incluse quelle della gestione Etihad, il cui ingresso è stato pagato da esuberi, riduzioni di stipendi e annullamento di tredicesime, e che di mirabolante ha avuto solo il chiassoso restyling del look e le pacchiane convention) ce ne sono stati diversi. Per citare gli ultimi, quelli di Cai e, appunto, Etihad. Ma potremmo elencarne anche altri prima: per esempio il piano lacrime e sangue dell’era Cimoli, uno di quelli dalle buonuscite miliardarie. E i sindacati, si chiede qualcuno, che ci stanno a fare?
Alla fine la soluzione è sempre la stessa: far pagare gli errori ai lavoratori. E le banche gongolano, mentre i manager colpevoli del disastro prosperano inviolati ed inviolabili, ed interessi diversi da quelli aziendali vengono ostinatamente difesi; e mentre i politici, incapaci di immaginare un sistema nazionale di trasporto aereo e di preservare un settore che altrove genera profitti, ammalati di liberalizzazioni portate all’estremo, affondano un intero settore produttivo.
Forse chi sceglie il no lo fa perché è stanco, stufo di pagare per colpe altrui, ed anela a far scoprire finalmente le carte. Forse gli irriducibili del no sono animati da un senso di giustizia tradita, dalla voglia di interrompere questo circolo vizioso, questa spirale perversa, perché lo scenario futuro è che alla prossima crisi si chiederà ai dipendenti di operare come volontari, senza retribuzione, con la certezza che neanche questo potrà evitare il prossimo fallimento. Forse chi vota no lo fa perché ha l’impressione che questo sia un inutile, ennesimo atto di forza, un atto dimostrativo che serve solo a far contento qualche grosso investitore.
Perdonateli, ma purtroppo quelli del no non vi credono più. E non è colpa loro.

Commenti

  1. mi scuso con tutti voi, per un mio errore l'articolo era stato cancellato. quello che purtroppo, e me ne dolgo moltissimo non sono riuscita a ritrovare sono i vostri commenti. Chiedo venia. So di avere perso qualcosa io.

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