AZ 610 FCO-JFK 11 settembre 2001
Il 747 era pieno: 404 passeggeri su 404. Equipaggio carino e
collaborativo, partenza on scheduled.
Upper deck. 12 passeggeri di Magnifica. Il servizio
procedeva senza intoppi e molto velocemente. Essendo la regina del galley, sfamati gli ospiti e saziati i condottieri (piloti e
tecnico) e mandato il collega collaboratore a dare una mano nell’affollatissimo
main deck, procedevo verso il cockpit
per riprendere piatti e stoviglie sporche e raccogliere altre eventuali
richieste.
Entrare nel cockpit quel giorno a quell’ora è stato come
attraversare una porta spazio-temporale. Dentro: il silenzio. Venni bruscamente
intimata di tacere, mentre le anime presenti ascoltavano attonite le comunicazioni
via radio, e colsi parole come 767, New York… guardai interdetta i presenti. Il
tecnico di volo, figura mitologica oramai purtroppo estinta, ahinoi, l’unico in
possesso in quel frangente di riflessi attivi si voltò verso di me ed osservando
la mia bocca aperta mi disse: «stiamo tornando indietro, ci hanno detto di
farlo e di mettere quanto prima le ruote per terra. Vale per tutti gli aerei
che non hanno ancora superato il punto di non ritorno (dovevamo iniziare la
traversata) aspettiamo comunicazioni dal coordinamento. Pare un paio di aerei
siano entrati nelle Twin Towers, due 767. Sembra sia un attentato. Io prendo un
affogato al caffè, se è rimasto il gelato».
La mia mandibola cascava ulteriormente, mentre il mio cervello si impegnava su due fronti: il
tentativo di comprendere quanto stava accadendo a New York, la nostra
destinazione, e quello di dirimere il mistero della coesistenza nello stesso enunciato
di due concetti francamente incompatibili, come catastrofe aerea e affogato al
caffè. Ho tentennato e ho guardato il comandante: un bravo signore, il quale
sembrava aver smarrito la favella, esattamente come la sottoscritta.
Quando sono uscita dal cockpit ero cambiata. Ed era cambiato
il mio mondo.
Sono tornata in cabina, posato le stoviglie e preparato il
caffè da mettere nel gelato. Cioè devo averlo fatto, per forza. E devo anche
aver comunicato coi colleghi di sotto, nel main
deck. Credo. Non avevo il coraggio di guardare gli ignari passeggeri.
Pensavo che mi si sarebbe letto in faccia che qualcosa di inconcepibile stava
accadendo. Ritornai verso il
cockpit, portando con me l’indimenticabile affogato al caffè. Entrai, insieme ad un
altro collega. Il comandante ci disse. «Chiudete la porta. E SEDETEVI».
Obbedimmo prontamente senza discutere.
E assistemmo in diretta alla cronaca via radio del crollo di
una delle torri.
Ero sconvolta ma ci ho messo un pochino a realizzare quello
che succedeva: da una parte non volevo abbandonare l’idea di un volo che
sembrava sereno, dall’altra non volevo permettere che l’angoscia mi avvolgesse…
ma man mano che passavano i minuti, come per il resto degli abitanti del
pianeta, la mia mente cercava di
adattarsi alla costruzione di una realtà diversa e brutta. «Farò un annuncio.
Tenetevi per voi ciò che sapete. Niente comunicazioni con la terra, i telefoni di bordo saranno disattivati».
La virata di rientro era già cominciata, con tanto di scarico
carburante. Toccava avvertire i 404 a bordo senza entrare nel merito. Il comandante,
con voce forzata, annunciò ai passeggeri, utilizzando il minor numero di parole
possibile, che nell’area di New York un grave incidente aereo aveva provocato
ingenti danni al suolo, e che le autorità americane avevano deciso di chiudere
lo spazio aereo statunitense, e che pertanto noi saremmo rientrati all’aeroporto
di partenza, Roma Fiumicino. A quel punto affrontai i passeggeri. I miei erano
in prevalenza nord americani. Alla menzione della chiusura dello spazio aereo
per loro si scatenò il panico. Ricordo un passeggero che è andato in
tilt, al quale ho dovuto preparare varie camomille e tentare di consolarlo
senza potergli dare informazioni, che comunque non l’avrebbero certo
tranquillizzato. Cercavo di dare notizie senza darle.
I passeggeri italiani erano diversi. Non avevano colto
subito la gravità della situazione, complice l’atavica sfiducia nelle
istituzioni (e in quel caso il comandante lo era) e in particolare in Alitalia.
Così mi toccò bloccare un comitato passeggeri contrari al rientro
(rigorosamente di Magnifica) che attraverso la scala a chiocciola che collegava
il main con l’upper deck, tentavano di accedere al cockpit per convincere il
comandante a dirigersi comunque verso il Nord America (“col cavolo che entrate
lì dentro, belli”), ascoltare la passeggera che dava di matto perché la sera
era attesa a Manhattan ad un party di un noto regista, essendone l’arredatrice personale (temo, signora che il party sarà annullato), e quello che doveva assolutamente
incontrare la sera a New York una famosa modella per un servizio pubblicitario…
Ricordo che il purser decise di mandare sugli schermi (era un aereo antico,
senza sistema interattivo) un film “leggero”: Shreck, che avevo visto giusto la sera prima con una mia
amica e i nostri bambini. Intorno alle 18,00 eravamo di nuovo a Fiumicino.
Messe le ruote a terra, accesi i telefonini, anche i passeggeri più
pervicacemente immusoniti avevano compreso la portata dell’accaduto. Uno
persino si scusò. I nostri ospiti erano attesi, dalla polizia e da
rappresentanti della compagnia. Bisognava risistemare un intero paese: 400
persone. E noi fummo assistiti dai nostri capi e dalle persone del gruppo che
si occupa di supporto in caso di disastri. E le prima cosa che ci dissero fu
che i colleghi a New York stavano bene ed erano stati tutti contattati. La
seconda: che avevano avvertito le vostre famiglie che saremmo rientrati.
L’aeroporto era stranamente silenzioso e al varco doganale
riservato agli equipaggi si sentiva una tv che narrava l’accaduto. Tutto sembrava
ovattato e strano. Era scomparso il solito menefreghismo diffuso. E tutti non
vedevamo l’ora di rientrare a casa dalle nostre famiglie, nel nostro guscio. E
solo a casa ho visto le immagini che hanno sconvolto il mondo e che continuano
a sconvolgerci.
Questo è un racconto soft. A me è andata bene: quasi zero
disagi. Ma alcuni dei nostri aerei sono partiti dall’Italia e, superato il
punto di non ritorno, sono dovuti atterrare in aeroporti sovraffollati in posti
disparati del Canada ed i loro occupanti ospitati in sistemazioni di fortuna,
anche se sostenuti dalle solidali popolazioni
locali.
Molti equipaggi sono stati bloccati per giorni negli Stati
Uniti, alcuni in una New York ferita a morte, in un coprifuoco effettivo e
spirituale. Un collega racconta che era in albergo a Manhattan e che ha
realizzato l’accaduto solamente quando uno degli addetti ai piani gli ha
chiesto se poteva guardare ciò che succedeva dalla sua finestra che, pur
lontana, permetteva di guardare le twin. Racconta, mi ricordo, che, insieme a
quell’uomo che non conosceva ha assistito attonito a ciò che accadeva,
osservando le torri ancora in piedi che fumavano ed infine il crollo, e la nuvola dei detriti che si
allungava dentro Manhattan percorrendone le arterie. Racconta anche di aver
mentalmente stabilito un limite all’espansione di quella nube giallastra oltre
il quale sarebbe sceso nella hall. E così ha fatto.
A me è andata bene, dicevo: sono rimasta a casa, messa di
riserva, ad attendere l’evoluzione, smarrita e depressa, in contatto con altri
depressi nelle medesime condizioni; e poi, alla riapertura dello spazio aereo
statunitense, spedita di nuovo a New York, per atterrare in un surreale aeroporto
vuoto.
Ricordo, in arrivo in città, la vista in lontananza, dal
bus, di Manhattan, in un bellissimo e limpido pomeriggio di settembre, e tutti
noi, ammutoliti, che guardavamo quella colonna di fumo giallo che un tempo
erano le Torri Gemelle, mentre dei poliziotti ci controllavano i documenti ad un
posto di blocco all’ingresso del tunnel per l’isola.
E la passeggiata successiva quasi in punta di piedi in una
Manhattan attonita, colpita nell’anima, con la Fifth Avenue quasi esanime e
adornata di drappi neri e Union Square, il santuario montato per evocare morti
e dispersi, divenuto il confine del mondo ancora percorribile.
E’ stato quello il punto di non ritorno: l’ingresso in un
mondo diverso e decisamente peggiore, da tutti i punti di vista.
Vorrei ricordare tutte le vittime del terrorismo, le vittime
a terra, e i passeggeri e gli equipaggi di quei quattro voli, e di tutti quei
voli finiti male per mano di altri uomini.
E vorrei sottolineare come volare vuol dire anche trovarsi
coinvolti in eventi infausti, come attentati incidenti terremoti ed altre
catastrofi, naturali e non, spesso lasciati nell’incertezza, nel non sapere ben
definire ciò che si sta vivendo né come si evolverà, lontano dai propri
affetti.
Qualcuno purtroppo in questi eventi ci ha rimesso la vita:
tutti noi abbiamo lasciato un pezzo di cuore in quei posti a noi familiari,
come le Twin Towers, cornici di un paesaggio e forse di un mondo che non c’è
più.
Pensa in Siria!
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