Le ali spezzate


Ricordo una sera di novembre del 1990. Lavoravo da poco come assistente di volo. Partivamo da Milano, come loro, ed eravamo vicini in sequenza per il decollo. Quando dopo un’ora circa siamo atterrati a Napoli, ce l’hanno detto. Erano precipitati nei pressi di Zurigo. Non li conoscevo personalmente. Ho passato molto tempo a cercare di ricordare se li avessi incontrati al “Charlie”, il centro equipaggi di Linate. La mia mente si è sforzata lungamente di distinguere i loro visi tra quelli dei colleghi che avevo visto nella stanza equipaggi: mi chiedevo ossessivamente se erano in transito, se fossero scesi come noi per abbandonare per pochi minuti il tubo di metallo e mettere i piedi sulla terra ferma, per prendere un caffè, per fare una telefonata a casa, o solo per salutare qualche amico anche lui in transito.
Un incidente aereo è un fatto tragico. Visto dall’interno irrompe nella tua quotidianità. Ogni volta che accade penso al turbamento degli addetti ai check in,  che hanno accettato quei passeggeri, e al personale all’imbarco che ha controllato  i loro documenti, all’emozione della rampa che ha salutato  per l’ultima volta quell’equipaggio alla chiusura delle porte, degli addetti ai bagagli che hanno caricato quell’aereo ed hanno chiuso i suoi portelloni, pensando di aver fatto il gesto di sempre che col senno di poi diventa un gesto unico. Penso al turnista che ha assegnato il volo ad un navigante che forse non aveva voglia di partire.
Quella sera del 1990 siamo rientrati a Milano in un albergo in cui regnava uno sconvolgente silenzio. Il personale alla reception era costernato.  Nei corridoi echeggiavano solo le voci dalle tv accese. In quell’albergo ci abbiamo passato gran parte della nostra vita lavorativa. In quell’albergo le stanze erano piene di naviganti attoniti mentre quelle destinate a quell’equipaggio erano rimaste desolatamente vuote. Ci sono momenti nella nostra vita che non si cancellano.
I naviganti, non solo i piloti, vengono addestrati ad evitare incidenti, a correggere comportamenti pericolosi, ad intervenire in caso di emergenza per limitare i danni, ad evacuare centinaia di persone in pochi secondi, a spegnere gli incendi in ambienti angusti. Vediamo decine di filmati sconvolgenti e ascoltiamo terribili resoconti di disastri accaduti ad altri, non per giudicare, né per trovare un inutile colpevole, ma per apprendere cosa fare e cosa non fare in certe circostanze o su cosa focalizzare l’attenzione, perché la routine non ci distolga dai problemi reali e dai segnali d’allarme, per riuscire a rilevare l’errore e a correggerlo prima che sia irrimediabile. L’eventualità del disastro fa parte della nostra vita. E gran parte dei nostri sforzi è teso ad evitarlo. O a fare in modo che abbia meno conseguenze possibili. La chiamano “resilienza”, la capacità di far fronte ad eventi dirompenti e traumatici, e superarli.
Lavorare sugli aerei tuttavia è routinario, come lo è qualsiasi altro impiego. Imbarchi, rullaggi, decolli voli e atterraggi si susseguono in continuazione e ti colgono coi tuoi pensieri e le tue solitudini. La tua vita si svolge all’interno di un aeroplano che diventa parte del tuo contesto, e tu sei parte di lui.
Ogni persona che vi lavora  porta con se una parte della propria esistenza e sale sugli aerei con le proprie aspettative, speranze, e delusioni, ed un bagaglio umano fatto di  abitudini, talvolta di cibo da casa, oppure di libri da continuare a leggere nei transiti, di immancabili gadget elettronici, la connessione con i propri affetti, e di piccole cose quotidiane stipate nella borsa infilata in qualche buco dell’aereo, dentro un galley, in un armadio: pezzi di vita individuali che ti seguono ovunque tu vada.
Non posso neanche pensare a coloro che hanno aspettato invano i loro cari saliti su quell'aereo, la mia mente si rifiuta di affrontare lo strazio dei genitori di quei  ragazzi  partiti per uno scambio culturale. Ci sono i passeggeri, e le loro famiglie. E ci sono gli altri. Il crew. Ho letto molti post dei miei colleghi sui social in questa infausta giornata. Ciascuno di noi si è chiesto cosa hanno provato le persone che erano a bordo del volo GermanWings che è caduto oggi. ciascuno di noi si è immedesimato in quell’equipaggio, con  un turno di lavoro di quelli che capitano spesso. Un volo con una sveglia allucinante, e delle tratte di medio raggio sufficientemente brevi.  Forse a Düsseldorf avrebbero finito il turno e sarebbero tornati alle loro vite terrestri. O forse avrebbero continuato per altre destinazioni, e sarebbero rimasti a bordo, avrebbero preso un caffè o consumato un pasto per poi ripartire. Avrebbero chiacchierato, telefonato ai propri cari, avrebbero raccontato le piccole cose che erano loro accadute. Una parte di noi era a bordo con loro, era lì dove non vorresti mai essere e dove invece sai che potresti trovarti, in quella che doveva essere una normale giornata di lavoro e che invece, per loro, è diventata l’ultima.
Non importa quale sia il colore di quella livrea, o il taglio di quella divisa, o la lingua utilizzata. Non importa se qualche volta ci siamo squadrati con diffidenza o con curiosità nelle hall degli alberghi o negli aeroporti del mondo. Alla fine siamo tutti parte dello stesso mondo, ed ancora una volta, siamo tutti parte di quell’equipaggio che era su quell’aereo. Ed una piccola parte di noi è volata via con loro.

Commenti

  1. una infinita tristezza, un grande dolore

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  2. Bellissime parole... Quella sera persi un amico collega di pari corso ! Che grande sgomento ! RiP .

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